Parlare di vita ragionando di violenza
“Questo articolo è parte di una campagna cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla”
Il testo è frutto di una riflessione fatta insieme dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin. È un lavoro laboratoriale, collaborativo, che esprime la nostra comune e condivisa esigenza, come Studi Femministi, di prendere parola sulla violenza contro le donne. Esprime, anche, i diversi accenti e pensieri che in noi il dolore ha suscitato. Abbiamo cercato di rendere – con i colori diversi del testo – il contributo originale di ciascuna a questa riflessione, senza preoccuparci di omogeneizzare posizioni e riflessioni in un testo “collettivo”, convinte che la parola di ognuna conservi il suo valore anche e soprattutto in un ragionare insieme.
Il patriarcato è una forma di ingiustizia che ha sancito, per millenni, il privilegio e il comando maschile nell’organizzazione intellettuale e materiale del mondo.
Sistemando le cose attraverso una forma di pensiero perversa e devastante, il patriarcato ha avuto, per secoli e secoli, un controllo assoluto sui corpi e sui pensieri delle donne e di tutti coloro che, considerati non conformi ai suoi rigidi parametri, sono stati segregati.
Lo ha fatto in maniera soft, attraverso la maschera dell’amore e del matrimonio, e in maniera hard, attraverso la coercizione e la manipolazione, fino ad arrivare ad atti estremi come lo stupro e l’uccisione. Messo alle strette e non accettando l’esercizio della critica, la punizione e la repressione è stata da sempre la sua arma più potente.
Dal micro al macrocosmo, la strategia è stata ed è sempre la stessa. Ecco perché la guerra, associata a un disequilibrio costante nella sfera sociale ed economica, è il suo prodotto di eccellenza.
Ma c’è di più. All’origine del patriarcato c’è una profonda paura dell’eccedenza femminile e, soprattutto, della potenza generativa: è il tema del materno ad essere stato contemporaneamente esaltato e disprezzato, e che per le donne si è tradotto, nella loro storia, in un destino ineluttabile.
Che cosa è, oggi, il patriarcato? Oggi è quanto mai necessario prendere coscienza del fatto che non ci troviamo in presenza di una crisi o di più crisi, bensì di una vera e propria mutazione. E non di una mutazione di una società, ma di un’intera civiltà. Una civiltà costruita per decenni sulla figura del lavoratore occupato a tempo indeterminato, quasi sempre maschio. Per regolare le relazioni tra vita privata e vita pubblica, per dirla con le parole di Luce Irigaray le donne sono fuoriuscite dal letto matrimoniale e dalla cucina della casa familiare, sono passate da una semplice identità naturale a un’identità civile, conquistata l’autonomia civile, ora assumono ruoli pubblici paritetici. Ma certe conquiste non valgono per sempre e per tutte.
Come già scriveva tanti anni fa Virginia Woolf – e più recentemente lo ha detto Donna Haraway – per proporre un mondo nuovo, un’altra società, un’altra civiltà, c’è bisogno di pensiero. Non basta fermarsi a qualche dato, se pur significativo, né tantomeno a slogan generici contro i maschi e il potere. Si tratta di riflettere su quale contenuto oggettivo si mette dietro agli slogan e di verificare se questo contenuto si possa condividere e come.
Sappiamo bene che riportare le statistiche sui divari di genere che ancora persistono rischia di risultare un’operazione inutile: i numeri sono dati freddi che non ci lasciano cogliere e toccare la vita materiale delle persone. Ma dentro questi numeri ci sono le biografie di molte donne, le loro difficoltà, i loro turbamenti e le loro paure.
La vita di una donna è nella maggior parte dei casi la vita di una funambula. I dati parlano chiaro e ci dicono che:
- in Italia lavora il 54% delle donne con 2 figli, questa percentuale scende al 40% per le donne con tre figli. Nel Mezzogiorno solo il 35% delle madri lavora;
- il 37% delle donne non possiede un conto corrente a proprio nome;
- nonostante il loro livello di istruzione sia sensibilmente superiore a quello degli uomini, le donne hanno molte più difficoltà a collocarsi nel mercato del lavoro e non accedono ai ruoli apicali;
- aumenta la quota delle dimissioni presentate entro i primi tre anni di vita di un figlio: per le donne la causa è la difficoltà a conciliare famiglia e lavoro mentre per gli uomini la motivazione principale riguarda il passaggio ad altra azienda;
- nonostante sia in aumento la quota dei “padri accudenti”, il divario di genere nella distribuzione del lavoro domestico e di cura è molto alto;
- Infine, 1 uomo su 5 pensa che il modo di vestire delle donne possa indurre la violenza sessuale.
La massima espressione dell’esercizio del potere e del controllo sulla e della vita di una donna, sfocia nella violenza maschile che giorno dopo giorno fa morire una donna.
Ci sono molti modi di “uccidere” una donna. Lo sapeva bene la storica e antropologa Nicole Loraux. Il femminicidio e lo stupro sono atti di violenza efferata commessi da un uomo, o più uomini, nei confronti di una o più donne. Il mancato possesso e controllo delle donne sono il precipitato di tutta questa violenza.
Già Lou Von Salomé aveva a suo tempo denunciato il narcisismo maschile, il suo attaccamento/rispecchiamento agli oggetti come elemento di “ritorno” e di appagamento del “proprio” potere. Anche se il sistema sessista sembra non operare più vistose e inique discriminazioni, in realtà agisce in maniera più subdola e sotterranea. Certo, il patriarcato ha subito il più duro colpo quando, grazie al femminismo, le donne sono riuscite a cancellarlo soprattutto dentro di sé e a scalfirlo nella sfera pubblica. È proprio dalla sua messa in crisi che nascono oggi quelle aberrazioni che colpiscono le donne anche nei paesi di più matura emancipazione.
La violenza sulle donne è proprio la reazione di quegli uomini deboli, gelosi e meschini che non riescono a reggere il confronto con le donne libere, pienamente autodeterminate nella scelta della loro vita e ad accettare lo smacco.
Di fronte ai corpi e alle storie delle le donne che, nel mondo, restano sul campo, ci attraversa un dolore acuto, ma non rassegnato: a differenza della rabbia, un dolore capace di aprire alla speranza che, in fondo, significa aspettativa del bene.
Abbiamo ragionato insieme sulla violenza contro le donne. Ragionare, nella sua etimologia, rimanda al calcolare, al computare. La formula dell’”intima estraneità” che nel suo ultimo libro la filosofa Angela Putino rintracciava nel “rigore della vita” di Simone Weil non separa, ma avvicina: “Una formula che passa tra molecole corporee e incorporee, tra il biologico e il sovrannaturale, non per combinarli o sovrapporli ma per far filare tra di essi un avvicinamento che, quando accade, si compie come gioia.”
Studi Femministi, febbraio 2024